La crisi del coronavirus dimostra prima di tutto quanto sia difficile, in Italia, essere costruttivi. Per la seconda volta in pochi giorni, dopo il caos seguito alla diffusione di notizie non confermate e poi semismentite dallo stesso governo a proposito della chiusura delle scuole, lo spettacolo si ripete a proposito della chiusura, non chiusura, socchiusura della Lombardia, con conseguenze ancora più gravi: per la salute pubblica, per la credibilità delle istituzioni, per l’economia e per l’immagine dell’Italia. Con l’attivo contributo di tutti: governo e regioni, maggioranza e opposizione, politici e cittadini.
Con l’ormai consueto rimpallo di responsabilità tra politici che non avrebbero dovuto lasciar filtrare le notizie e giornalisti che avrebbero comunque potuto astenersi dal pubblicarle; ma anche qui, che si tratti di intercettazioni telefoniche, segreti militari o semplici pettegolezzi, l’idea che la libertà implichi una responsabilità per quanto riguarda le conseguenze delle scelte compiute – di cui sono responsabile proprio perché le ho compiute liberamente – sembra essere stata cancellata da tempo immemorabile, e non solo dal giornalismo, ammesso che in Italia qualcuno l’abbia mai affermata.
In questi giorni le televisioni mandano in onda le immagini di due Italie, tremendamente simmetriche: quella dei ristoranti, degli alberghi, dei bar deserti e sempre più spesso costretti a chiudere, e quella dei locali affollati, dei «coronavirus party», delle code straripanti davanti alla seggiovia. Locali vuoti e costretti a chiudere da un lato, dall’altro locali strapieni, dove la distanza di un metro e ogni altra misura di sicurezza viene non solo ignorata, ma apertamente irrisa. Senza capire che quelle due Italie sono l’una figlia dell’altra, che le misure sempre più dure che si renderanno necessarie, e che avranno un impatto devastante sull’economia, saranno anche conseguenza dell’irresponsabilità di chi continua a farsi beffe di ogni norma e di ogni raccomandazione proveniente dal governo, dai medici e dal buon senso.
Nessuno sembra più disposto ad accettare il minimo incomodo in nome del bene comune, concetto probabilmente troppo astratto, e per molti nostri concittadini, spesso orgogliosi di evadere, eludere e frodare il fisco in ogni modo, evidentemente inafferrabile. Ma questo non è il momento di fare i capricci. Se si arriva alla saturazione degli ospedali in tutta Italia, infatti, non si morirà “solo” di coronavirus (e già parleremmo di cifre altissime, ben oltre quelle di un’influenza stagionale). Dunque è urgente fare tutto il possibile per contenere la diffusione dell’epidemia, obbedendo al governo e alle autorità sanitarie, perché ora è il momento di combattere, metro per metro.
Obbedire e combattere, anche senza crederci, anche se tutto è stato fatto per minare la credibilità del governo e dei suoi provvedimenti – anzitutto dal governo stesso – e prima ancora della politica e della scienza. Anche di fronte all’increscioso spettacolo dell’assalto ai treni per lasciare la Lombardia un minuto prima che scatti la zona rossa (che poi proprio rossa non è, diciamo rosé). Per anni ci siamo divisi tra chi diceva che l’arretratezza italiana era colpa dei politici, della «casta», e chi diceva che la colpa era degli elettori che li avevano scelti, discettando astrattamente della questione se fossero peggiori i dirigenti o i diretti, i partiti o la società civile. Di fronte all’angosciante spettacolo di queste ore verrebbe quasi da rispondere, come si diceva una volta, che sono peggiori entrambi. Ma forse la verità è che gigantesche e improvvise tragedie collettive come quella attuale, dopo le prime comprensibili oscillazioni dalla sottovalutazione al panico, dall’indifferenza all’isteria, finiscono per lasciare ciascuno di noi solo con la propria coscienza. Non può stupire, di conseguenza, che in tanti non riescano a sopportare una tale compagnia. Abbiate pietà anche di loro, anche di noi, e cercate di dare una mano, per come e per quanto potete. Possibilmente, da casa.
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