In questi giorni di domiciliari forzati capita di imbattersi in libri in attesa di essere letti, riposti in qualche angolo della libreria. Ho preso così in mano un volumetto colorato, dal titolo E’ morto Canciofali, Carnevali e maschere fra miti e tradizioni della Sardegna, che occhieggiava da uno scaffale.
La raccolta è stata curata da Gianfranco Carboni, cagliaritano sessantenne dai cromosomi seuesi, uomo dai mille interessi e politico malato di buoni propositi, cittadino impegnato in attività culturali e benefiche, personaggio eclettico, fumantino, bizzoso, generoso e onesto, quasi unico nel suo genere, molto stimato nel capoluogo sardo, soprattutto in Castedd’e susu, Marina, Stampace e Villanova, la Cagliari dei rioni storici insomma, quella più autentica.
Avevo trascurato quel libro di curiosità carnevalesche – lo confesso – ripromettendomi di leggerlo in momenti più tranquilli, quando il tempo me lo avesse consentito. Invece, inevitabilmente, era subentrato l’oblio. Ho rimediato perciò in fretta alla mancanza, scoprendo – devo dirlo – un lavoro interessante, piacevole alla lettura, denso di aneddoti, note storiche e culturali, curiosità e notizie su un argomento apparentemente scontato che, invece, davvero pochi conoscono.

Una maschera di Seui e la copertina del libro curato da Carboni
Il carnevale infatti non è solo costumi, piroette o schiamazzi: può essere strumento per orientare lo sguardo su culti antichissimi, miti e leggende, sulla storia dove affondano le nostre radici ancestrali. Dove le celebrazioni diventano reperti da analizzare, testimonianza di “tradizioni millenarie che – come afferma Carboni nell’introduzione – ripetono rituali tesi, un tempo, a stimolare il sostegno di dei pagani, a celebrare i ritmi della natura, oppure ad avere, per un giorno almeno, la libertà di trasgredire per poi tornare alla routine”. Da questo punto di vista tutti i carnevali, in ogni parte del mondo, pur trasformandosi di sovente in momento di trasgressione, gioia o sarcasmo verso il potere, contengono il Dna attraverso cui leggere la storia, e quelli della Sardegna non fanno eccezione.
La narrazione di tanti festeggiamenti, a prima vista differenti, vive ancora in tanti centri dell’Isola dei nuraghi, e rappresenta un giacimento prezioso cui attingere. Un compito affatto semplice ovviamente, perché bisogna saper interpretare i messaggi che vi si celano. Per questo il lavoro di Carboni è meritorio, rivelandosi un utile strumento di approfondimento e fornendo più di una chiave di lettura.
Il potere politico e religioso ha tentato nel corso dei secoli di soffocare le tracce delle nostre origini e della nostra civiltà, per “incanalare il tutto entro spazi egemonici e spinte all’omologazione”, come fa notare il testo. Ma proprio i carnevali hanno spesso aggirato questo rigore impositivo conservando, per chi ha l’occhio sensibile, la possibilità di recuperare verità sopite. Di reinterpretare quei momenti in cui il popolo trova un modo per fare scudo contro il potere egemonizzante attraverso il perpetuarsi del rito o la satira popolare. Ed è importante, allora, intervenire davanti al rischio di veder sparire per sempre la purezza di tali preziose manifestazioni, farlo in fretta ridando loro vitalità.

Maschera sarda (Foto Francesca Mu)
Anche per questo la raccolta curata da Carboni è un lavoro lodevole, che fornisce un contributo per la tutela della vera essenza del Carnevale. Perché il Carnevale “costituisce – come osserva nel testo Maurizio Ciotola – un laboratorio della libertà, ove si creano i presupposti per realizzarla e mantenerla in vita. Un indicatore popolare attraverso cui la scienza sociale ci illustra la realtà, e non un indicatore numerico con cui una scienza pseudodemocratica ci continua a illudere celando la illibertà”.
In effetti il carnevale può essere portatore di satira e sberleffo sociale, un modo di spiattellare in faccia la realtà, come quello di Casteddu (Cagliari) con Canciofali, oppure custode di antichissima memoria storica, come quello di Seui con S’Urtzu e sa Mamulada, rievocazione dell’uccisione di un dio/demone pagano rappresentato da un cinghiale, con cui le maschere esorcizzano il male. Tradizioni spesso abbandonate e poi riscoperte, come in quest’ultimo caso, tramite l’amorevole ricerca di giovani come Dennis Mura, affiancato dal padre Elio e da altri appassionati come Stefano Boi e Riccardo Meloni.
Celebrazioni ataviche, dove contano i ruoli, ogni parola, qualsiasi passo o piccoli gesto, e perfino i numeri messi in gioco, come il tre misticamente legato alla triade maschile.
In quel rito seuese, caratterizzato dal suono cupo della tritonis nodifera e da movenze precise, nel nome di S’Urtzu orcu, per esempio, riecheggia il mito di Forco, re dell’Isola e divinità marina primordiale. E conta in particolare l’elemento fuoco e il suo significato recondito. Non per nulla i vecchi del paese ricordano che un tempo si accendevano più di cento fuochi per Sant’Antonio e Santu Pitanu (San Sebastiano) a tramandare un rituale la cui origine si perde nella notte dei tempi. Il sincretismo religioso ha spesso steso un velo su tali riti di origine pagana che riportano fino al culto della Dea Madre, ma allo sguardo dello studioso ciò non sfugge.
Ecco perché un alone di magia sembra circondare tutte queste manifestazioni, caratterizzate da gesti rituali e maschere che custodiscono la storia più autentica.
Accade con quelle di Seui, ma anche con le maschere di Escalaplano, Su boi’omadori e Su Fui Janna Morti, protagoniste di un rito dove la maschera dalle grandi corna, tenuta da Su omadore (domatore), con la faciola (maschera) realizzata con l’osso del bacino del bue, un tempo indossata “da chi aveva il potere di comunicare con l’aldilà”, parlano di tempi lontani che pure ci appartengono.
Si ripete con quelle di Sorgono, l’Aretes e S’Urtzu Pretistu, ma anche con S’intibidu (Ardauli), Sos Corrajos (Paulilatino), Su bonargiu e su pastori (Teulada), Sos Corriolos (Neonelli), S’urtzu e Sos Colonganos (Austis), Scruzzonis (Siurgus Donigala), Sas mascheras’e cuaddu (Neonelli), Is Mamuthones e Isohadores (Mamoiada), Is Boes e Merdules (Ottana), Bundhu (Orani) e Thurpos (Orotelli).
Guarda il VIDEO
In tutte queste maschere riecheggiano – secondo molti antropologi e altri studiosi – credenze antiche, reinterpretazioni del culto dionisiaco, con cui si celebrava la fine della stagione fredda e il ritorno della primavera, la rinascita dopo la morte, il momento sacro in cui si invocava la fertilità. Il carnevale antico coincideva dunque con la fine di un ciclo e segnava l’avvio del nuovo ciclo di produzione agricola, e da qui gli atti simbolici per ingraziarsi le forze benefiche e scacciare quelle malefiche.
Del resto l’uomo ha sempre “prestato attenzione agli avvenimenti che madre natura decreta con i suoi ritmi eterni, e vi ha legato le sue paure ma anche le sue speranze, facendone magari una religione verso un Dio al quale rivolgersi, come nel caso di Dioniso, Mainoles, Maimone, Urtzu in Sardegna”, come ricorda Tonino Marras dell’associazione culturale Mandrolisai di Sorgono.
Questo e altro si cela dietro quei rituali antichissimi, quegli uomini vestiti di pelli, carichi di ossi di animali, il volto annerito dal sughero bruciato o coperto da una maschera nera, che catturano e sacrificano la vittima predestinata, sotto forma di capra, toro, cervo, cinghiale, perpetuando la celebrazione di Urtzu-Dioniso. Una tradizione evidente anche a Sinnai, con le maschere de Is Cerbus.
Ma la pubblicazione su Carnevale, maschere e tradizioni non dimentica nemmeno ricorrenze ricche di fascino come quelle del Carnevale di Oristano (con Sa Sartiglia), Santulussurgiu, Bosa e Tempio, e toglie la polvere anche dal pittoresco carnevale cagliaritano.
Una manifestazione tenuta in vita con passione da chi sacrifica a questo scopo gran parte del suo tempo, come hanno sempre fatto i componenti della Società di Sant’Anna, quelli della GIOC, del Carnevale ferroviario (con la sua locomotiva che denunciava i malcostumi del momento) del Villaggio pescatori, dell’Aspis di Pirri, della GRUG di Castello (quando “il rione era vivo, vissuto e abitato” come ricorda puntualmente Gianfranco Carboni che di quel posto è figlio).
Il Carnevale di Casteddu è uno sfolgorio di colori e allegria, alimentato da Sa Ratantira e dalla sfilata per le vie del centro, che le bellissime foto storiche contenute nel libro, allinenadosi a fianco di quelle delle maschere più antiche dei tanti centri sardi, documentano alla perfezione.
E’ morto Canciofali, Carnevali e maschere fra miti e tradizioni della Sardegna, è per questo un libro da leggere, un documento dove trovare risposte a tante curiosità che ci riguardano da vicino, più di quanto non pensiamo.
(Il video proprietà di G. Carboni è stato girato da Mat Atzeni. Le foto sono di Francesca Mu e Renato d’Ascanio Ticca. Un grazie particolare al Cavalier Giovanni Loddo, Efisio Paci, Pinuccio Schirra e i fratelli D’Angelo, cui è dedicato il libro. Nel libro si ringraziano inoltre Virginia Marci, Renato d’Ascanio Ticca, Anna Lecca, gli studenti dell’Istituto Alberghiero Azuni, Rosaria Floris, Giampaolo Marchi, Giuseppe Deplano, Maurizio Ciotola, Tiziana Troja, Michele Pisu, Dennis Pietro Mura, Marco lampis, Maro Prasciolu, Tonino Marras, Andrea Puddu, Marta Sirugu, Paolo Zedda, Josto Murgia, Anna Bistrusso Massidda, Biagio Paci, Carlo Perelli, Cicci Marcialis, Gerolamo Chinedda, Giancarlo Luzzu, Gianluca Medas, Irene Mura in Stara, Luciano Sordo, Marco Putzu,Roberto Garau, Teo Mulas, Sa Domu Studentato Occupato, Walter Loi, la famiglia Casti. Le associazioni S’Urtzu e Sa Mamulada di Seui, Bois fui janna morti di Escalaplano, Is Cerbus di Sinnai, Is Arestes e S’Urtzu Pretistu di Sorgono, Sa Ratantira di Cagliari. Grazie ancora ai fotografi Alessandro Cani, Elisabetta Messina, Enrico Locci, Fabio Marras, Fabrizio Varioli, Francesca Mu, Franco Lecis, Giuseppe Ungari, Mario Lastretti, Mario Rosas, Renato d’Ascanio Ticca e Stefania Mattana. Si ringraziano infine Francesco Abate e l’Unione Sarda, Cristina Mazzuzi per le poesie e Alessandro Cani per la foto di copertina del libro, tutti i gruppi e le associazioni culturali che hanno collaborato).